Gli fu messo nome Gesù.

Commento al Vangelo di fra Vincenzo Ippolito ofm
Maria Santissima, Madre di Dio (Anno A) – 1 gennaio 2023

I pastori trovarono Maria e Giuseppe e il bambino. Dopo otto giorni gli fu messo nome Gesù.

Dal Vangelo secondo Luca (2,16-21)
In quel tempo [i pastori] 16Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. 17E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. 19Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. 20I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.

21Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

Nell’ottavo giorno dalla celebrazione del Natale, la Chiesa contempla Maria, la Madre del Signore, colei che ha permesso al Verbo di prendere “la vera carne della nostra umanità e fragilità”. La celebrazione odierna, in realtà, ricorda la circoncisione di Gesù, avvenuta l’ottavo giorno (cf. Lc 2,21), secondo la legge (cf. Lv 12,3; Gen 17,12) ed il nome che gli viene imposto (cf. Lc 2,21). L’ingresso di Dio nel mondo, la sottomissione sua alle tradizioni dell’antico Israele avvengono grazia a Maria, che è la vera Madre di Dio, come la definisce il Concilio di Efeso del 431. Guardare a Lei significa imparare da Lei a permettere al Signore di essere artefice della nostra storia, trasformandola dall’interno, come il lievito nella massa. Questi plurimi significati acquistano una incisività ancor più rilevante all’inizio dell’anno solare: il tempo che Dio ci concede, scandito dall’obbedienza a Lui, ci porta ad essere come la Vergine, capaci, per opera dello Spirito, di donare Cristo Signore, con la nostra stessa vita.

La liturgia della Parola lega i diversi e ricchi fili di questi eventi. La Prima Lettura, tratta dal libro dei Numeri (cf. 6,22-27) presenta la benedizione che Aronne e i suoi figli useranno per il popolo d’Israele, segno della misericordia che il Signore accorda e del bene che Lui vuol realizzare per i suoi. Mentre nel Salmo responsoriale (cf. Sal 66) l’autore ispirato invoca la pietà e la benedizione del Signore sull’intera creazione perché sperimenti la salvezza, la Seconda Lettura (cf. Gal 4,4-7) offre l’unico riferimento alla Vergine, nella letteratura paolina, che ben la inquadra nel disegno della salvezza, perché gli uomini diventino figli di Dio. Nel Vangelo (cf. Lc 2,16-21) il breve riferimento alla circoncisione e all’imposizione del nome (2,21) segue l’adorazione dei pastori (2,16-18.20), mostrando, in un delicato inciso, il lavorio interiore di Maria che tutto custodisce e medita nel cuore (2,19).

Indugiando sulla scena dei pastori
Non è superfluo ritornare sul brano evangelico che la liturgia ci ha donato nella Messa dell’aurora (cf. Lc 2,15-20), il giorno della solennità del Natale. L’unica differenza è l’aggiunta di un versetto (2,21). La sacra Scrittura è come una fonte zampillante, si può attingere sempre acqua. Non bisogna credere che da una pagina già letta e meditata non si possano attingere “cose antiche e cose nuove” (cf. Mt 13,52). Questo perché è lo Spirito Santo autore della Scrittura, insieme con gli uomini, che sono considerati veri autori. Si tratta di un’opera a più mani, per la quale ciascuno dona il suo contributo, secondo le capacità proprie, Dio da Dio, mentre l’uomo da uomo. Il Signore imprime nella parola umana, che gli uomini mettono per iscritto, l’onnipotenza della sua grazia e così sarà da parte nostra sempre impossibile esaurire il senso di quanto leggiamo e considerare superfluo ogni approfondimento. Per questo sono indispensabili le nostre disposizioni, nell’accostarci alla sacra Pagina, così da accogliere quanto leggiamo non “non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti” (1Ts 2,13). E poi, chi ama forse non legge e rilegge quanto l’amato scrive? La fede nella presenza dello Spirito e l’amore nel cercare Lui, in quanto ha ispirato, nutre la speranza che la nostra vita, come quella dei pastori, venga illuminata dalla luce del Bimbo, nato a Betlemme per noi.

Il brano evangelico segue gli antefatti della nascita di Gesù, con le notizie a carattere storico ed il censimento (cf. Lc 2,1-3), che giustificano la discesa di Giuseppe e Maria da Nazaret a Betlemme, la città di Davide (2,4-5), dove Gesù venne alla luce (2,6-7). Ad esso segue il racconto dell’apparizione dell’angelo ai pastori (2,8-12) ed il canto della moltitudine celeste (2,13-14). L’inizio, omesso dalla sezione liturgica, dice “Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo” (2,15a). C’è il tempo della rivelazione di Dio, con l’esperienza della sua gloria che avvolge di luce e che produce timore, il rassicurante messaggio dell’angelo, con l’annuncio del prodigio del Dio bambino, nato a Betlemme, con i segni per riconoscerlo, usando un linguaggio a loro familiare, ma questo dopo poco scompare. A differenza di Pietro sul monte alla trasfigurazione di Gesù, non vogliono fermare il mistero di Dio che i loro occhi contemplano. I pastori accolgono i tempi che Dio ha voluto per loro e li vivono, con quella intensa partecipazione che è propria di chi accoglie il ritmo naturale della vita, voluto e stabilito da Dio, senza problemi. La manifestazione a cui assistono è solenne, lo spettacolo che vedono divino, il canto ascoltato celestiale. Ma tutto scompare perché gli angeli si allontanano e si ritorna al buio della notte e alla vita di sempre. Eppure la vita loro non può riprendere il corso di prima. Sono certi che Dio abbia parlato, che loro non hanno sognato perché avrebbero dovuto farlo insieme e questo è impossibile. Rientrare nella realtà non è difficile per i pastori, il passare dalle stelle alla stalla all’aperto, dove vegliano le greggi, li trova pronti. Eppure sono questi i passaggi che a noi fanno paura, tanta paura. Non siamo bravi a rientrare nella quotidianità, nel ritmo frenetico delle nostre giornate, forse perché lo straordinario ci stordisce e noi lo viviamo estraniandoci, quando invece il prodigio di Dio ci spinge a tenere ben fissi i piedi per terra. Quello è il segno che veramente abbiamo incontrato Dio: avere il cuore in alto e gli occhi fissi sulla storia, le mani nella farina del mondo, sapendo che il lievito è la presenza di Dio che fa fermentare la nostra vita rendendola suo regno. Chiediamo sempre a Dio segni straordinari, vorremmo che gli angeli stessero sempre con noi a rischiarare le notti e a vincere la paura del buio, ma non siamo bambini e dobbiamo avere il coraggio di affrontare la notte, traducendo in decisione condivisa l’esperienza che abbiamo fatto di Dio. Il messaggero celeste, inondandoli della gloria luminosa del Dio bambino, gli ha donato di pregustare all’esterno il chiarore che interiormente li avvolge. Fare esperienza di Dio significa lasciarsi raggiungere nelle profondità dell’animo dalla sua luce, vuol dire permettere al Signore di parlare al cuore inquieto, al cuore in pena, di ascoltare la sua voce. Si supera la notte e la storia non fa più paura, per quando complessa voglia apparire, se guardiamo la realtà con gli occhi di Dio. I pastori si accorgono che per Dio sono importanti, non sono ai margini di una società che, per la poca disponibilità a partecipare alla preghiera in sinagoga o al culto annuale al tempio, li considerava esclusi dalla promessa. Per Dio i lontani sono diventati i vicini, gli esclusi i prediletti, i peccatori, amici fidati. Avrebbe potuto inviare i suoi angeli ad altri, invece, proprio a loro, ripiegati sulle greggi, in una regione dispersa di Giudea è inviato l’angelo di luce, con un messaggio carico di speranza. Si scoprono amati, pensati, curati, soccorsi da Dio, attraverso il suo messaggero. È questa scoperta che accende nel cuore la luce per superare il buio. È questa la certezza che li porta a farsi destabilizzare da quell’annuncio insolito e tanto straordinario, senza pensarci due volte. I pastori hanno incontrato Dio, hanno riconosciuto, nel suo linguaggio semplice e alla loro portata, un annuncio credibile perché facilmente comprensibile e si fidano. Possiamo vincere la paura, superare le difficoltà, metterci in marcia insieme se abbiamo veramente incontrato il Signore, nei messaggeri che ci invia, nelle persone che ci annunciano la luce, in coloro che ci parlano di Dio, proprio quando noi sperimentiamo la sua lontananza.

Leggere la Scrittura vuol dire identificarsi con i personaggi di cui si legge, ma questo non è poi tanto difficile. I pastori ci dicono qualcosa di noi, ci portano a capire che non ha senso pretendere segni se poi non siamo pronti ad obbedire a quelli che Dio ci ha già dato, che non è bene domandare parole se non prestiamo ascolto a chi, accanto a noi, ci dona quella parola di luce che ci sgomenta e ci mette in crisi. Se al ricco Epulone, che chiedeva ad Abramo di far andare Lazzaro dai suoi fratelli perché si ravvedessero, il padre diceva che nessun segno fuori dall’ordinario avrebbe potuto sostituire la portata dirompete della Legge e dei profeti, anche per noi vale lo stesso. La nostra vita è piena di messaggeri di luce, bisogna accoglierli, riconoscerli e proprio le nostre tenebre fanno meglio apparire la bellezza della sua luce. Dobbiamo accettare le mediazioni che Dio ha stabilito per noi e legare il cuore a quanto trasmettono, non a quello che essi sono e mostrano. Maria non si ferma all’angelo Gabriele ma al suo messaggio e i pastori non restano a guardare al cielo, come i discepoli, all’ascensione di Gesù (cf. At 1,10-11). Dobbiamo imparare ad andare oltre, a fermare il cuore e la mente al significato degli eventi, non al loro accadere, saper andare oltre i messaggeri, gli angeli di luce. Solo chi si sente raggiunto da Dio, amato, investito di una parola che è promessa può vincere la notte, per arrivare alla sorgente della luce, che è il bambino Gesù.

Nella comunione la forza
C’è un secondo elemento importante nella notte in cui piombano nuovamente i pastori una volta che gli angeli sono ritornati in cielo ed è l’esperienza rinnovata dell’amicizia e della comunione. Hanno insieme visto l’angelo e vissuto lo stupore ed il timore del suo apparire; insieme hanno ascoltato il suo annuncio e si sono lasciati avvolgere dal chiarore della luce; insieme hanno goduto il canto della moltitudine celeste e li hanno visti ritornare in alto; insieme si ritrovano nella notte, dopo la visione che si è dileguata, ma non possono dire di essere quelli di prima. L’esperienza li ha toccati in profondità ed ora non sono più insieme per lo stesso interesse nel custodire le greggi ma sono stati resi un corpo dalla rivelazione che Dio ha loro donato. È il Signore, infatti, che, concedendo la stessa esperienza di Lui, ha dato loro di scoprirsi compagni di un viaggio ancor più bello ed importante, di un cammino che attende chi trova in sé il coraggio di compierlo, senza indugio. Non pensano alle pecore che vegliano, neppure a ciò che nella notte dovranno affrontare… hanno ricevuto la parola di una promessa ed insieme sono pronti a rischiare. C’è il proposito – “Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere” (2,15) – a cui segue la pratica, ovvero la capacità di fare quanto, sotto la luce di Dio, il discernimento dei suoi segni, si è compreso come necessario ed opportuno. Partono e vanno insieme. La forza dei pastori è la comunione, la fraternità che hanno sperimentato. Dio li ha chiamati insieme ed insieme si fanno coraggio e partono, sprezzanti di ogni pericolo. È così difficile per noi comprendere il grande dono che il Signore ci ha fatto chiamandoci a condividere con altri il nostro cammino. Ci sentiamo spesso limitati da quelli che fanno con noi la strada, avversati dal loro procederci accanto, incompresi da quanto dicono di noi e di loro stessi. Il cammino spesso diventa pesante, perché perdiamo di vista la meta. È questa che determina la bellezza del cammino, non la perfezione dei nostri comportamenti e la grazia dei nostri caratteri. Noi siamo quello che siamo, ma se procediamo, tenendo fisso lo sguardo a Lui, se non ci lasciamo bloccare da nulla e, chiamati, facciamo come il figlio di Timeo, Bartimeo che, cieco, sapendo che Gesù lo sta chiamando, getta il suo mantello (cf. Mc 10,50), allora tutto passerà in secondo piano, perché il Salvatore è ciò che ha rapito il nostro cuore e polarizza le nostre attese, non sono i fratelli con cui facciamo la strada che possono prendere la nostra attenzione, se non per soccorrerli ed aiutarli, ovvero vivere la carità, il resto non conta.

È importante saper vivere la comunità e dare il giusto peso alla fraternità. Siamo diversi, ma non è l’essere uguali che ci fa camminare meglio, quanto, invece, avere chiara la meta che dobbiamo raggiungere, assecondando l’esperienza di Dio che ci ha riempiti del desiderio di una luce intensa e duratura che può venire soltanto da Cristo. Ci illudiamo di procedere meglio se siamo affiatati nel cammino perché non è l’intesa che ci fa correre e andare senza indugio, ma la gioia di andare da Cristo la cui promessa ci è stata affidata nella notte. Si diventa amici e fratelli in Cristo se insieme si cammina nella notte, se si condividono le asprezze del cammino, se ci si aiuta non lasciando che nessuno cada senza avere una mano che lo rialzi. Si vive la comunione e si costruisce fraternità solo se ci si accorge che è Dio che lo vuole, è Lui che ci ha chiamati ad essere un corpo solo. È Cristo che ci rende pietre vive per l’edificazione di un edificio santo, non siamo noi a costruire la casa, se non è il Signore ad edificarla. La Chiesa non fiorisce sulla nostra buona volontà, il Vangelo non si annuncia sulla base dei piani pastorali, stilati a tavolino, ma sulla forza di Dio, sulla sua volontà, sulla nostra disponibilità a fare ciò che Lui insistentemente ci chiede. Nel cammino insieme ci si conosce e ci si ama, si impara a guardarsi sotto la luce di Dio, a distinguere che la meta è importante, non le tappe intermedie, che l’assoluto è Dio, non quello che noi pensiamo, che Cristo è la luce, non i nostri sogni di chiarore, che con il Signore le tenebre divengono come luce perché la notte è chiara come il giorno. Si perde tempo nel lavorare perché il fratello sia come noi desideriamo, soprattutto quando lui cerca di fare lo stesso con noi, perché la conversione che la strada ci chiede è quella di lasciare che il traguardo da raggiungere scandisca il cammino da seguire. I pastori sono esperti di comunione, fissano la meta e procedono concordi, non si fanno deviare dai difetti dell’uno o dell’altro, sono semplici ed umili, ma non si lasciano portare da questo o quell’altro pensiero. Per loro esiste solo il Bambino che desiderano trovare nella mangiatoia, come l’angelo ha indicato loro.  Dai pastori impariamo a vivere da fratelli, accogliendoci. Siamo ammalati di comunione e consumiamo fraternità anche se fraintendiamo l’una e misconosciamo l’altra. Per noi la comunione sta nell’essere concordi, avere rapporti con tutti, connessi con il mondo e sconnessi con noi stessi, con quella solitudine dalla quale cerchiamo di scappare e che, invece, rappresenta la nostra forza, se accolta con gioia e vissuta con amorevole sacrificio, e possibilità di comunione vera con Dio e tra noi.

Il Bambino nella mangiatoia: meta del loro cammino
Il cammino dal Campo dei pastori alla grotta della Natività, per chi visita Betlemme oggi, non è poi tanto distante, sulla base della tradizione che ha stabilito la localizzazione di questi siti. Ciò che risulta importante è che giungono dove sono diretti e questo non è un dato scontato, almeno per noi. Tante volte partiamo, decisi a proseguire il cammino, pronti a tutto, ma poi non arriviamo dove volevamo, ci perdiamo per strade che imbocchiamo fidandoci di noi stessi, oppure indugiando ai crocicchi di vie, dove non era neppure necessario passare. In questo andirivieni la volontà diventa debole e la stanchezza ci fiacca. Il più delle volte, però, se non arriviamo alla meta è perché abbiamo deciso noi dove andare, non procediamo sulla base delle indicazioni ricevute da Dio e così nostre sono le strade ed i cammini, nostra la meta e pretendiamo che Dio ci doni la forza per compiere quello che a noi piace, disposti a farlo passare come sua volontà. Se poi, giunti, ci rendiamo conto che si tratta di un miraggio, raramente siamo disposti a confessare il nostro errore e fare ammenda delle nostre colpe. I pastori, invece, si lasciano guidare da Dio, come i Magi dalla stella e dalle parole della Scrittura che ricevono, stranamente per noi, nella reggia del sanguinario Erode. È Dio che decide la meta e la strada, chi cammina con noi e come procedere. Volontà di Dio è la meta da raggiungere e la via da percorrere, volontà di Dio sono le persone che camminano con noi e le tappe che determinano il nostro cammino. Come accadde con il popolo d’Israele, uscito dall’Egitto e diretto nella Terra promessa, anche per noi valgono le stesse caratteristiche. Lui ci guida, talvolta per strade tortuose, ma necessarie, verso un paese dove scorre latte e miele. Dobbiamo investire la vita su Dio e la sua volontà, non pretendere che egli renda suoi i nostri progetti. Se non c’è questo spostamento d’asse, se non avviene in noi questo cambiamento di prospettiva, saremo fuori strada e rischieremo di non giungere a Cristo e conosceremo così solo strade senza uscita.

Luca, del cammino dei pastori, non dice nulla. Si passa direttamente dal proposito condiviso alla meta raggiunta. “Andarono, senza indugio, – egli scrive – e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia” (2,16). La parola dell’angelo diventa realtà, dalla promessa si giunge al compimento, passando attraverso il cammino che i pastori compiono. Ogni parola di Dio è una promessa che per realizzarsi richiede la collaborazione degli uomini. Così per Maria. La parola di Gabriele diventa realtà, grazie alla docile accoglienza della Vergine. Dio fa tutto, nella sua onnipotenza, con la nostra disponibilità. I pastori fanno la loro parte, come dobbiamo compierla tutti noi, perché, solo se collaboriamo alla sua opera il regno di Dio sarà vero tra noi. La realtà che i pastori trovano, il mistero che contemplano è ancor più bello di quanto era stato loro detto. La realtà supera la figura ed il compimento oltrepassa la promessa. Il Bambino è nella mangiatoia, secondo quanto l’angelo ha loro annunciato, ma con Lui Maria e Giuseppe. Nella povertà di una scena domestica devono credere nel compimento della promessa loro affidata. La scena è scarna, simile a quella che si poteva vedere nelle borgate vicine, ma proprio questo è il paradosso. Tutto è simile alla povertà di altre famiglie, ma nella mangiatoia c’è il Salvatore del mondo, Colui che il loro cuore desidera e che l’animo brama. Avrebbero potuto credere che il passaggio dalla figura alla realtà è sproporzionato ed in parte è vero, perché la luce della gloria dell’angelo ed il canto della moltitudine celeste non si ode. I pastori non si sgomentano della povertà, ma accolgono il linguaggio umile che Dio sta usando, sono avvezzi a scoprire la bellezza nella povertà e nella difficoltà. Il sensazionale non è trovare una famiglia povera ma che Dio abbia messo la tenda tra noi, nella povertà di una famiglia bisognosa di tutto. Essi riconoscono che il Salvatore è uno di loro, non è estraneo alle loro pene ma solidale con la vita dura che vanno menando. Gesù che sarà solidale con i peccatori, nelle acque del battesimo (cf. Lc 3,21-22), che attrae pubblicani e peccatori, desiderosi di ascoltarlo (Lc 15,1), già dalla mangiatoia insegna che Dio è vicino a tutti e che si è fatto piccolo, perché nessuno possa aver paura di Lui. Incarnazione significa solidarietà, condivisione, accoglienza dell’altro. Per questo i pastori, “dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro” (2,17). Gli occhi vedono ciò che la parola aveva annunciato e le labbra cantano il prodigio di una solidarietà mai immaginata: c’è speranza per loro, esiste la salvezza di Dio anche per chi è ai margini della società ed è questo che spinge Luca a scrivere: “se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto” (2,20). Solo chi scopre Dio vivo e vero nell’umiltà della propria vita sperimenta la sua vicinanza e crede che la salvezza sia alla sua portata.

Il Signore Gesù, principe della pace, ci conceda di essere come i pastori, persone capaci di camminare insieme nella concordia e nella fraternità e di costruire una società che bandisce ogni tipo di violenza, sopraffazione, guerra, umiliazione e morte. La nostra preghiera diventi ancor più pressante per l’Ucraina e tutte le Nazioni martoriate dai conflitti.

Maria ci ottenga il dono della pace. Amen.