Giovanni Battista

Ecco l’agnello di Dio

Commento al Vangelo di fra Vincenzo Ippolito ofm
II Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) – 15 gennaio 2023

Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo.

Dal Vangelo secondo Giovanni (1,29-34)
29Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! 30Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. 31Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele”.

32Giovanni testimoniò dicendo: “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. 33Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. 34E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio”.

Prediamo il largo nel mare aperto del Tempo Ordinario, chiedendo al Signore la grazia di testimoniare nella quotidianità il nostro radicamento in Cristo. Solitamente abbiamo due momenti in cui la liturgia si veste di verde: il periodo dal battesimo di Gesù al Mercoledì delle Ceneri – quest’anno fino al 1° marzo – e nel tempo che segue la domenica di Pentecoste fino alla Prima domenica di Avvento. La lettura continua del Vangelo secondo Matteo guida il nostro cammino e sostiene la sequela dietro Gesù. Talvolta, come in questa domenica, la liturgia attinge da altri Vangeli, per ricostruire un quadro quanto più possibile soddisfacente della vicenda storica di Gesù e del cammino dei suoi. Per questo la pericope odierna presenta la testimonianza di Giovanni, nel Quarto Vangelo (cf. 1,29-34), facendoci meglio comprendere il passaggio di testimone tra lui e Cristo, seguendo quanto vedevamo già la scorsa domenica. La Prima Lettura, tratta dal profeta Isaia (cf. 49,3-5.6) continua a presentarci la figura del Servo sofferente del Signore – leggiamo, infatti, parte del Secondo Carne – che rappresenta la linea messianica che Gesù vivrà, fino al dono della vita. La Seconda Lettura ci offre il saluto iniziale della Prima Lettera ai Corinzi (cf. 1,1-3) in cui l’Apostolo si rivolge a coloro che “invocano il nome del Signore”, augurando loro “grazia e pace”, mentre il Salmo responsoriale (Sal 39), tra le due Letture, è un’accorata invocazione di aiuto al Signore, che libera chi confida in Lui.

Come Giovanni il Precursore (Vangelo) siamo chiamati a riconoscere la presenza di Cristo, che è il servo del Padre (Prima Lettura), l’Agnello che toglie i peccati del mondo. Invocando il suo nome (Seconda Lettura) possiamo sperimentare la salvezza e la pace.

Vedere il Signore Gesù, con gli occhi del cuore
La pericope odierna fa parte della prima sezione del Vangelo secondo Giovanni (cf. 1,19-2,12), nella quale l’autore narra l’inizio del ministero pubblico di Gesù, nell’arco di sei giorni, riallaciandosi alla settimana della creazione (cf. Gen 1,1-2,4a), tema questo ripreso già con il Prologo (cf. Gv 1,1-18). Tenendo conto del contesto precedente (cf. 1,19-28), l’indicazione temporale “Il giorno dopo” (v. 29) colloca la testimonianza di Giovanni nel secondo giorno, visto che, al v. 35 c’è un nuovo “il giorno dopo”,che racchiude il nostro brano in uno spazio temporale ben delimitato, indicando anche l’inizio di una successiva pericope (cf. 1,35-43. A dare unità al testo che la liturgia ci dona, oltre all’indicazione temporale, è la figura di Giovanni che domina la scena solo temporaneamente, visto il passaggio di testimone con Gesù (cf. 1,35ss). In seguito, comparire per l’ultima testimonianza, durante il ministero in Giudea (cf. 3,22-36) ancora una volta ad indicare la superiorità della missione del Figlio di Dio, che completa l’opera della creazione e conduce gli uomini alla conoscenza del Padre. Possiamo definire un monologo la confessione del Precursore su Gesù, raccolta in questi sedici versetti. L’Evangelista, infatti, non dice nulla sugli ascoltatori, ma è facile capire, sulla base del contesto, come Giovanni si rivolga a quanti accorrono a lui, mentre, da un punto di vista letterario, è soprattutto al lettore, che è diretto il suo eloquio, così da sentirsi personalmente interpellato dalla persona e dalla voce del Precursore, visto che il Vangelo è scritto “perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” 8Gv 20,31).

È significativo notare che Giovanni, nei diversi racconto evangelici che ne trasmettono ora la vocazione nel deserto ora il ministero, rappresenta sempre la fedeltà dell’uomo alla chiamata di Dio, ben esprimendo la capacità, dono dello Spirito, di restare al proprio posto, in umiltà e povertà. Con disarmante chiarezza, ha risposto a quanti, da parte dei sacerdoti e leviti di Gerusalemme prima (cf. 1,19-23) e dei farisei dopo (cf. 1,24-28), gli chiedevano il senso del suo predicare e battezzare; ora, con lucidità di fede e profonda consapevolezza, si accorge che Colui che sta attendendo ed annuncia alle folle è finalmente giunto e a lui per primo è chiesto di accoglierne la presenza e di riconoscerne la potenza. Tale consapevolezza è ben espressa nel nostro brano, dove Cristo rappresenta la chiave, il senso, il fine della personalità e del ministero di Giovanni.

L’Evangelista scrive: “vedendo Gesù venire verso di lui” (v. 29). Nessuno si accorge di quello che sta accendo, ma il figlio di Zaccaria sì. Il suo cuore è desto, l’occhio attento, la mente vigile, in tensione continua il suo animo. La vita del Precursore è come un arco bene teso, con una freccia da scoccare verso il Messia. “Al posto di osservazione, Signore, io sto sempre lungo il giorno, e nel mio osservatorio sto in piedi, tutte le notti (Is 21,8) può confidare Giovanni, con audacia e coraggio. Vede Gesù, ma non solo con gli occhi del corpo, quanto, invece, con quelli del cuore, ne percepisce l’assolutezza, la grazia della divinità, la potenza dello Spirito che senza misura effonderà. La fede illumina il suo sguardo, rende penetrante la sua vista, non si ferma all’apparenza che limita gli altri, ma sa e vuole andare al di là, nelle insondabili profondità del mistero di Gesù, che lo Spirito gli dona di esplorare, visto che solo il Paraclito apre cuore e mente alla conoscenza del Figlio.

La nostra vita non è povera come crediamo e la quotidianità non è monotona, come di solito accusiamo. Il vero problema è di profondità di sguardo, diversità di prospettive, intensità di cuore. Nella nostra vita c’è Cristo, come puoi dire che sia così banale? Nella tua storia, c’è il Signore, perché accusi solo tenebra, quando, invece, in te splende la luce vera, quella che “illumina ogni uomo”? Al pari dei due di Emmaus, il dolore dei nostri fallimenti, i preconcetti per le nostre delusioni, credute tali, la mancanza di un vero e profondo cammino di conversione e di riconciliazione, ci impedisce di vedere Gesù, di contemplare il suo incedere, di considerarci meta del suo andare, termine del suo operare. Tanti hanno veduto Gesù, ma non hanno fatto il salto di fede, molti hanno goduto della sua guarigione, ma hanno poi gettato la spugna, saziati dai suoi pani moltiplicati, risanati nel corpo, nel desiderio di risolvere problemi unicamente temporali, senza percepire un bisogno più grande. Per questo Gesù poté dire a Cafarnao, a chi si era messo sulle sue tracce: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati(6,26). Vede Gesù e si lascia guardare da Lui solo chi sente nel cuore il fuoco del desiderio di Dio, chi è consumato dalla gioia che non passa, chi si strugge, di giorno e di notte, perché l’animo è in pena, non ha tregua, stanco del mondo fallace e pieno di apparenze. Il credente non scappa dal mondo, ma dalla mancata sua capacità di riflettere la bellezza di Dio, di dare gloria al suo Creatore, di cantarne la grazia, manifestarne la potenza, esprimerne l’assolutezza, mostrane l’immensità. Il mondo stanca e disgusta il cuore quando non porta “significazione” di Dio, canta Francesco di Assisi, quando si creda che l’universo possa bastare a se stesso, che la gioia sia nel possesso del solo piano orizzontale dell’esistenza. Per questo i Santi, uomini e donne vere, hanno amato e servito il mondo come nessun altro. Senza scappare dalla storia, hanno in essa ravvisato il luogo in cui Dio continuamente si manifesta e continua il miracolo della creazione, culminato nella grazia della redenzione. Per questo san Francesco, scrive il primo biografo: “Nelle cose belle riconosce la bellezza somma e da tutto ciò che per lui è buono sale un grido: «Chi ci ha creati è infinitamente buono». Attraverso le orme impresse nella natura segue ovunque il Diletto e si fa scala di ogni cosa per giungere al suo trono” (2Cel 165: FF 750). “L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore” (1Sam 16,7) e si fa trovare da chi guarda con il cuore puro di un bambino se stesso, gli altri, il mondo che lo circonda. Tutti sentiamo dentro di noi il desiderio di vedere Dio, di inabissarci nella sua luce, di godere della sua immensità, di trovare in Lui la pace, per vivere della sua presenza e godere della sua forza. Con il salmista diciamo L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente (Sal 42,3), ma, al pari di Giovanni solo in Cristo trova pace il nostro animo e soddisfazione piena e duratura ogni nostro desiderio di bene.

Dio mi raggiunge
Il Precursore, oltre a vedere Gesù, con gli occhi del cuore, illuminati dalla fede, si accorge anche del suo procedere verso di lui, che i passi di Cristo sono indirizzati alla sua vita, che il suo sguardo, con molta probabilità, sta incrociando i suoi occhi, dal momento che lo vede “venire verso di lui” (v. 29). Il Nazareno ha Giovani come meta del suo camminare, la sua storia quale traguardo del suo andare. Non è solo importante rendersi conto della presenza del Signore nella propria vita – anche se già questo risulta tanto – quanto, invece, accorgersi che a Lui interessiamo noi, non le nostre cose, noi, non i nostri impegni, noi, non le attività che crediamo importanti e reputiamo possano spingere Lui a considerarci suoi amati figli. Siamo sempre bravi a dare a Dio qualcosa di noi. Ma Gesù vuole noi, ci raggiunge continuamente, perché desidera fare del nostro cuore il nuovo guardiano dell’Eden dove passeggiare alla brezza della sera. È bello vedere che il Signore non conosce soste, già al principio della sua missione. L’Autore lo presenta in quel continuo movimento, che rappresenta la costante della sua missione (cf. 1,15, 27. 29), in quella discesa vertiginosa dal seno del Padre (cf. 1,18) fino alle profondità delle tenebre del nostro rifiuto alla sua grazia, fino alla croce dove venne inchiodato come un malfattore.

Quanto abbiamo bisogno di contemplare e renderci conto che Gesù ci viene incontro, che abita il nostro dolore, come accadde a Marta e Maria, per la morte di Lazzaro, che ci soccorre come il paralitico, che cercava di immergersi nella piscina di Betzatà da trentotto anni, che ci aspetta al pozzo, al pari della samaritana, che si finge uno sconosciuto sulla via di Emmaus, che ripesca i suoi a Tiberiade, dopo che Pietro ha gettato la spugna, gettando in acqua le reti e spingendo coloro che dovevano essere da lui confermati nella fede a fare altrettanto. Gesù non si stanca di me, perché è il buon Pastore, in continua ricerca della pecora smarrita. Il suo cuore non si da tregua “finché non la trova” (Lc 15,4), perché non potrebbe fare altro, nell’eccesso dell’amore che il suo cuore sente, nella fiamma che gli consuma l’animo, nel roveto ardente del suo desiderare la mia salvezza. È questa l’esperienza che Giovanni sta facendo. Ha ricercato Dio, lo ha sentito nel suo cuore, ne ha ascoltato la Parola nella solitudine del deserto, ma ora deve accorgersi che non è Lui ad andare verso Dio, ma è Cristo Signore, Dio e uomo, a raggiungerlo, a mettersi sui suoi passi, a cercare la sua vita, ad illuminarlo dall’alto, come sole che sorge. Per ciascuno di noi è questa una sconvolgente esperienza. Stai cercando Dio, studi in tutto di seguire la sua Parola, di mettere a frutto la sua grazia. Sei sempre in corsa, per tagliare quei traguardi che ti imponi, quelle misure alte che comandi a te stesse, quelle cime eroiche che, secondo te, rappresentano la santità da raggiungere ad ogni costo. Poi accade che Dio ti apra gli occhi e ti porti a vedere che è Lui ad amarti per primo, Lui a pensare a te, Lui a considerarti il suo figlio prediletto, Lui a darsi pensiero della tua vita, Lui a donarti il suo Figlio unigenito, perché tu abbia la vita. Solo allora, capisci che hai sbagliato tutto che devi ricominciare da Lui, non dal primato della tua volontà, non dalla lotta titanica ai tuoi fallimenti, devi ripartire dall’umiltà del suo raggiungerti, non dalla durezza del pretendere da te stesso chissà quale scelta determinata, ma dalla consapevole esperienza che nulla vale più del suo amore. Gesù è venuto per farti sentire amato e accolto, perché solo l’amore sperimentato è la forza che mette in circolo le nostre capacità e ci porta a cambiare il mondo, perché Lui ha cambiato prima noi ed il nostro mondo interiore e tutto il resto ne rappresenta la naturale conseguenza. Il primato di Gesù Cristo porta Giovanni a comprendere che il primo passo è di Dio nella sua vita e che il Signore supera ogni nostro merito e desiderio. Nella sua Prima Epistola, il Discepolo amato lo dirà a chiare lettere: “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10) e ancora “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1Gv 4,19). La nostra vita di sequela inizia quando ci accorgiamo che Gesù viene verso di noi, perché allora la fede diventa non una libera iniziativa nostra, ma una risposta a Lui, che si è rivelato nella nostra storia e che si prende a cuore la nostra vita. Fino a quando mi impegnerò a fare delle cose per Dio, tutto sarà incentrato su di me e crederò sempre che la salvezza e la gioia dipendono da me, come anche la vita in famiglia e i rapporti con gli amici, l’armonia in parrocchia e nella mia comunità. Quando inizierò a rendermi conto che Dio fa tutto per me, che ha creato il mondo per l’uomo, che il suo Figlio è morto per me sulla croce, quando mi scoprirò un prodigio per Dio, raggiunto dal suo abbraccio, circondato dalla sua cura, amato con un affetto di predilezione, seguito nel cammino, passo dopo passo, allora darò veramente il primato a Lui e tutto quello che penserò, farò, dirò sarà il frutto non del mio pensare Dio, ma del vivere con Lui e di Lui. È necessario quindi spostare l’asse da noi a Dio. Senza questa fondamentale conversione la vita di fede non spiccherà mai il volo nell’orizzonte sconfinato di Dio.

Dire con la vita che Gesù è il Cristo
Ci sono dei passaggi consequenziali, che portano Giovanni alla confessione di Gesù quale Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo. Prima c’è il suo sguardo, che penetra nella realtà, superando la superficialità e considerando come Dio abiti la sua vita, perché l’occhio è puntato su Gesù Cristo; poi c’è la consapevolezza che il Figlio di Dio gli venga incontro. Non si tratta di una pura raffigurazione mentale, né di un gioco di immaginazione o di fantasia, quanto, invece, della presenza di Cristo che lo sta raggiungendo, dirigendosi verso di lui. Il terzo passaggio è la parola, che fiorisce sulle sue labbra, naturale conseguenza di un cammino, dall’occhio che carpisce all cuore che medita, dalla mente che elabora alla bocca che confessa. Non è un caso che Paolo, nella Lettera ai Romani, parli proprio della confessione di fede in questi termini: “se con la tua bocca proclamerai: “Gesù è il Signore!”, e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm 10,9). Nel nostro brano c’è proprio questo itinerario, le labbra proclamano perché il cuore crede, si è aperto alla potenza di Cristo che lo sta raggiungendo. Tutta la vita del Precursore testimonia Gesù Cristo, ne confessa la messianicità, ne dimostra la divinità, lo presenta fonte dello Spirito Santo, che le antiche profezie annunciavano come il principio della nuova alleanza. “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (v. 29).

La parola nasce sulle labbra quando c’è una profonda esperienza del Signore, illuminata dalla fede e sorretta da una docilità incondizionata alla modalità da Lui scelta per venirci incontro. Ci deve essere in noi, come nella vita di Giovanni, una convergenza ed una sinergia tra quello che viviamo, per un puro dono di grazia, e quanto, con le parole, doniamo agli altri, come frutto della vissuto, di cui diveniamo coscienti. Se manca questa relazione profonda tra fatti e parole, non solo la nostra vita non rivelerà Dio, ma tantomeno seguirà la modalità che Egli sceglie per dirsi e darsi all’uomo, con “fatti e parole intimamente connessi”. Le nostre parole hanno un peso specifico solo se nascono dalla solitudine e dal silenzio, se passano nel crogiuolo della preghiera, se nascondo dalla nostra vita con Dio, abitata da Dio. Solo allora saranno parole di fuoco, che trasmettono la vita di Dio in noi e accendono nei cuore dei fratelli il desiderio di condividere quella stessa trasformante esperienza, perché chi ama Dio desidera che venga amato anche dagli altri, cosicché abbiamo in abbondanza la vita, attingendola da quella divina sorgente che è Cristo Signore. La parola di Giovanni è ricca dei riferimenti all’antica alleanza e soprattutto alla festa di pasqua, vissuta dal popolo come segno della liberazione dalla schiavitù. Il Precursore sta dicendo che Gesù libera e salva chi crede in Lui, è il suo sangue sparso che donerà la gioia, l’offerta della sua vita genera la riconciliazione con il Padre e la comunione tra gli uomini. In una semplice espressione Giovanni ricapitola tutta l’economia dell’Antico Testamento, mostrando come i riti della liturgia del tempio segnassero l’amicizia e l’alleanza del popolo d’Israele con Dio. Ora, ed è questo che il Precursore confessa, dalle figure si giunge a Cristo e proprio tale passaggio determina la fine dell’antico modo di entrare in comunione con Dio e l’inizio di un dialogo differente, in Gesù e per Gesù. Per questo alla samaritana dirà: viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano (Gv 4,23) e ai Giudei: Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere (Gv 2,19), meglio specificato in seguito “Ma egli parlava del tempio del suo corpo” (2,21). Dire che Gesù è l’agnello significa che è Lui la porta, è necessario attraversare il suo costato trafitto per avere in abbondanza la vita. Giovanni sa bene quello che dice e, dicendolo, comprende che lui per primo è chiamato a passare a Cristo e a traghettare i suoi verso il Messia, che compie le profezie antiche, con la propria vita e che “ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue” (Ap 1,5). Se Gesù è l’agnello che toglie il peccato del mondo, bisogna rivolgersi a Lui solo per avere la liberazione, sperimentare la vita nuova, affrancarsi dalla ribellione, avere in abbondanza l’amicizia con il Padre. È Cristo che ci rende accetti a Dio, non sono i sacrifici del tempio che ci assicurano la purificazione dalle colpe e il cammino nella giustizia e nella santità.

C’è un altro significativo riferimento al mistero della Pasqua di Gesù, nella seconda parte della confessione di Giovanni (vv 32-34) e lo comprendiamo da quanto egli dice: Io non lo conoscevo – è sempre il Precursore a parlare – ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo (v. 33). Gesù è l’agnello che ti libera da ogni peccato, che ti impedisce di essere felice sul serio, amici di Dio, di averlo compagno di cammino, di godere del suo amore, di vivere nella sua alleanza di pace. Al tempo stesso Gesù è la sorgente dello Spirito Santo, il suo cuore squarciato è la fonte del dono dello Spirito che fa nuove tutte le cose. In pochi versetti l’Evangelista, attraverso la testimonianza di Giovanna, presenta in sintesi il cammino che attende il lettore del Vangelo: accogliere in Cristo il Figlio di Dio, nella sua Pasqua di morte e resurrezione la vera liberazione dal male, nel dono del suo Spirito, dal suo fianco trapassato dal colpo di lancia, la grazia della vita vera, che ci rende creature nuove.

Lasciamo che Giovani ci conduca nelle insondabili ricchezze del mistero di Gesù Cristo, il Figlio di Dio (1,34), volgiamo lo sguardo alla sua croce, ravvisiamo in Lui l’Agnello vero e nuovo, che sancisce l’alleanza eterna tra Dio e noi, apriamoci alla forza del suo Spirito, che effuso in noi e sopra di noi, ci rinnova nell’amore e ci rende dono di misericordia e perdono ai fratelli. Solo lavando le nostre vesti, la nostra vita, nel sangue dell’Agnello saremo veramente puri e resi, canditi come la neve, potremo manifestare ai fratelli le meraviglie che l’amore di Dio ha operato ed opera in noi.