Seguire la via tracciata da Gesù Cristo.

Commento al Vangelo di fra Vincenzo Ippolito ofm
IV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) – 29 gennaio 2023

Beati i poveri in spirito.

Dal Vangelo secondo Matteo (5,1-12a)
[In quel tempo]1Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. 2Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:

3“Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
4Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
5Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
7Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
8Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
9Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
10Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.

11Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.

La liturgia ci dona oggi di salire sul monte con Cristo, per ascoltare la sua Parola di vita e lasciare che l’insegnamento da Lui donato sprigioni in ciascuno di noi la sua potenza di gioia. Come annuncia il profeta Sofonia (cf. 2,3; 3,12-13), nella Prima Lettura, il Signore esaudisce la ricerca sincera di quanti, in umiltà e povertà, desiderano la giustizia e chiedono a Lui solo di “pascolare e riposare senza che alcuni li molesti”. Le difficoltà della dominazione assira non spengono nel cuore del popolo la speranza di un tempo di pace, accompagnata dalla consapevolezza che “il giorno del Signore” sarà di misericordia per i fedeli alla sua Legge e di iraper chi percorre la via del delitto. NelSalmo responsoriale, con la seconda parte del Salmo 145 (vv. 6c-10), l’orante loda il Signore, le cui gesta – ne vengono enumerate ben dodici (rimane fedele; rende giustizia;dà il pane; libera; ridona la vista; rialza; ama i giusti; protegge; sostiene; sconvolge; regna)– soccorre i suoi in ogni momento di pericolo. Nella Seconda Lettura, tratta dalla Prima Lettera ai Corinzi (cf. 1,26-31), l’apostolo Paolo mostra come la potenza della croce di Cristo scandisca la nostra esistenza, anche quando non ne siamo consapevoli. Difatti la piccolezza e debolezza sono il segno che Dio opera in noi e se questo accade senza che ce ne accorgiamo, cosa farà Dio nella nostra disponibile coscienza? Il Vangelo, invece, con il brano della otto beatitudini (cf. Mt 5,1-12a), è la magna carta della vita cristiana, il programma del credente che segue in tutto la via tracciata da Gesù.

C’è nel nostro cuore un desiderio di ricercare il bene e di anelare alla pace (Prima Lettura), ma solo Cristo realizza i desideri più profondi dell’animo umano (Vangelo), in quella apparente paradossalità che svela la pienezza della vita.

Seguire Gesù Cristo
Dopo l’annuncio del regno e la chiamata dei primi discepoli (Vangelo della scorsa domenica,cf. Mt 4,12-23), con gli ultimi versetti (vv. 23-25) che rappresentano un raccordo narrativo con quanto segue, l’Evangelista ci porta sul monte, lontani dalla vita frenetica di Cafarnao, lungo di mare di Galilea. In realtà, Matteo mette per iscritto quanto accade nella cerchia dei discepoli, stretti intorno a Gesù, visto che è Lui a decidere gli spostamenti da compiere e le tappe da attuare. Il salire sul monte da parte del Maestro è la diretta conseguenza del suo sguardo – “vedendo le folle, salì sul monte” (v. 1) – dove l’occhio carpisce ciò di cui i suoi hanno bisogno. Ogni scelta di Gesù è sì dettata dalla volontà del Padre, ma Egli tiene conto anche della capacità dell’uomo di accogliere quanto Dio vuol donare e ciò che desidera ottenere, per un bene più grande. Questa è la mediazione che Cristo vive ed attua. Prima che salvifica, si tratta di una mediazione pedagogica, ovvero tener conto del vero bene, costituito dal dono del Padre, come anche della maturità delle persone a cui è stato mandato. Il discorso di Gesù nasce proprio dall’esigenza di far entrare i discepoli nel più ampio orizzonte della pienezza della Legge che Egli rivela, tenendo conto della gradualità del cammino e delle potenzialità che, in quanto eredi delle antiche Promesse, essi vivono e godono. Lo sguardo di Cristo va ben oltre ciò che i discepoli percepiscono di loro stessi, non si ferma ai bisogni primari o ai desideri superficiali, ma attinge direttamente dalla sete del cuore che essi hanno, pur senza averne chiara consapevolezza. Questo rende per noi difficile comprendere la proposta di Dio e richiede un salto di fede. Il Signore vede in noi le possibilità che abbiamo e nota il bisogno di metterle a frutto, ma questo è impossibile senza il soccorso della sua grazia. Noi, dal canto nostro, non avendo piena consapevolezza di ciò che siamo e di quanto possiamo, ci convinciamo che Dio ci chieda l’impossibile e che quanto ci propone sia totalmente contrario a quello che noi ravvisiamo come vero bene per noi stessi. Quando, invece, guardiamo la nostra vita con gli occhi di Dio, sotto la luce del suo sguardo, tutto ci appare diversamente e comprendiamo meglio come la volontà del Signore non solo risponda al nostro vero bene ma sia l’unica strada per essere noi stessi, realizzando in Cristo la nostra piena umanità. Questo non toglie la fatica del cammino ma dona un senso alle rinunce e ai sacrifici, ai silenzi e all’offerta, perché nulla si ottiene senza che ci sia l’impegno personale, con la grazia di Dio “che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente e sia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità” (DV 5). Dio ci chiede di fidarci di Lui, di quanto il suo sguardo vede di noi e di procedere nel cammino, lasciandoci portare, senza la pretesa di voler capire, ma con la fiducia del bambino che si lascia condurre dalla mamma, avvolto e custodito dal suo amore. Gesù conosce il nostro cuore e sa bene le potenzialità che abbiamo e che restano inespresse se non incontrano la sua grazia. Alla scuola di Gesù siamo chiamati a scoprire noi stessi, guardandoci con i suoi occhi che fanno verità e fugano le illusioni dell’egoismo, incontrando la potenza dello Spirito che ci dona senza misura, perché la nostra vita fiorisca. Come per il popolo, in cammino nel deserto verso la terra promessa, la nube indicava la marcia con il suo procedere, e le soste con il fermarsi, il Maestro conduce chi lo segue, conoscendo il suo vero bene, perché è Lui il pastore che cammina davanti alle pecore (cf. Gv 10,4). È questo il senso del “Venite dietro a me” rivolto a coloro che ha chiamati (cf. 4,19). La prima grande e vera lotta della nostra vita è quella di lasciare che sia Cristo a guardarci in verità, decidendo di noi. Spesso accade che, con il cuore, vogliamo seguire il Signore, mentre la nostra mente ci mostra quanto sia opportuno farlo, ma poi, soprattutto in alcuni momenti, una naturale ribellione ci fa desistere dall’impresa vagheggiata ed il demonio soffia su quelle prime scintille perché divampi la fiamma della disobbedienza. Seguire Gesù vuol dire mettersi dietro di Lui, senza pretendere che siamo noi a decidere tempi e luoghi, attività ed impegni, amicizie e rinunce. Il Maestro chiede a chi lo segue la disponibilità a vivere la sua stessa vita e a lasciarsi guidare sempre, come Lui, Figlio unigenito, si lascia portare dalla volontà del Padre. Sottomettere il proprio collo al giogo del Signore, per quanto dolce e leggero (cf. 11,30), è frutto di una vita convertita dall’amore di Dio, abitata dalla grazia della sua misericordia, irrorata dalla potenza del suo tenero affetto. La volontà umana, naturalmente debole ed incline all’incostanza, solo se è sostenuta dalla croce del Salvatore procede sulla strada tracciata da Cristo, nell’armonia tra le molteplici capacità della sua personalità, domate e tenute insieme dalla grazia, che vince le derive suscitate dal Nemico. I discepoli, appena chiamati, seguono il Signore senza battere ciglio, procedono dietro di Lui, senza fare problema, avanzano, probabilmente presi dalla novità del cammino intrapreso. Verranno giorni però “in cui lo sposo verrà loro tolto e allora digiuneranno” (10,15), la fatica si farà sentire ed il cuore inizierà a provare affanno, ma ogni tempesta sarà superata, sperimentando la dolce presenza del Redentore. Poiché c’è un tempo per ogni cosa, nella nostra vita, è bene vivere tutto con intensità, senza guardare indietro, come Israele che sognava l’Egitto, né avere lo sguardo fisso sul futuro, che ancora non esiste, perché, così facendo, non si vive il presente.

Essere felici con Dio
I dodici versetti che formano la nostra pericope sono l’incipit del primo grande discorso di Gesù ai discepoli (capp. 5-7), nel quale Egli parla senza interruzione, indirettamente chiedendo di ascoltarlo. La persona di Cristo esercita un fascino sui discepoli che “si avvicinano a Lui” (v. 1), non meno della sua parola, se l’Evangelista, appunta: “Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi”(vv. 28-29). La scelta del monte evoca le grandi rivelazioni di Dio ad Israele, prima fra tutte quella del Sinai, unitamente alla necessità di accogliere l’insegnamento del Signore in un luogo che permette e favorisce l’ascolto. È vero che Dio parla dovunque, ma ci sono dei luoghi nei quali si favorisce l’incontro e l’amicizia con Lui, dove il nostro cuore, lontani dalle distrazioni esterne, è chiamato a fronteggiarele battaglie interiori, facendo spazio alla grazia.

La nuova Legge che Gesù annuncia è codificata in otto articoli che, presentati così, hanno ben poco della potenza del Sinai e tanto della freddezza e del volontarismo delle legislazioni umane. In verità le beatitudini rappresentano il programma della vita di Gesù, comunicato ai discepoli e l’insegnamento che verrà di seguito offerto dal Maestro alle folle (cf. Mt 5,13-7,27) sarà la spiegazione di questi primi dodici versetti, con l’intenzione di calare la parola del Signore nella vita concreta, sminuzzandoli perché siano nutrimento per ogni credente.È importante, annunciando la parola, renderla comprensibile perché ciascuno sia guidato ad accoglierla come possibilità di vita, proprio come fa Gesù. Il nerbo del suo insegnamento è sull’espressione “beati” che percorre l’intero testo per ben otto volte. Diverse categorie di persone, nell’esperienza che stanno vivendo, partecipano della grazia del regno dei cieli e, oltre che viverne già qui in terra lo spirito, sono proiettati nel futuro che il Risorto edificherà nel regno che verrà. Ma prima di inoltrarsi nelle beatitudini, in ciò che annunciano ed in quanto promettono – ogni beatitudine rivela la potenza salvifica che ciascuno vive nelle reali difficoltà della propria vita, misteriosamente unita al mistero di Cristo e, nella seconda parte, la portata escatologica della promessa cristiana che apre il cuore alla dinamica del regno – è bene, nella luce del Paraclito, vedere lo spirito delle beatitudini, nella duplice dimensione di continuità e compimento dell’Antico Testamento.

Il genere letterario della pericope è definito di beatitudine o macarismo (dal termine greco, tradotto in italiano con beato), ben attestato nei Salmi e nella letteratura sapienziale. Il termine, centrale nella pericope, richiama la felicità che l’uomo sperimenta in stretta comunione con Dio. A ben vedere, infatti, la beatitudine – sinonimo di felicità e di gioia –è il vero motore della nostra vita, il fine che ci spinge alle imprese più grandi. Dobbiamo però stare attenti, perché, soprattutto nella nostra società, la gioia è slegata dalla realizzazione del nostro vero bene e risulta una mera soddisfazione di piaceri, buoni sì, ma non assoluti. Tutto ciò che Dio ha creato è buono e bello, ma è ordinato alla comunione con Dio e tra noi. Questo vuol dire che il discepolo di Cristo è invitato a comprendere la felicità, che il suo cuore naturalmente desidera, nell’ampio orizzonte di Dio e della realizzazione del fine per cui è stato creato. Non deve fermarsi a stati intermedi, che non sono Dio, né donare all’animo inquieto quell’acqua che non disseta, perché non ha nel cuore di Gesù la sua sorgente. Il Nazareno non è un maestro di vuota dottrina, quanto di vita e la sua è una proposta che si accompagna all’esperienza condivisa con Lui. Essere felici vuol dire scoprirsi creati per cose grandi, belle, avvincenti, dove il sacrificio è accolto, il tempo vissuto, l’offerta attuata, sapendo che c’è una meta da raggiungere, un traguardo da tagliare insieme con Lui. Beato è il santo, l’uomo che ha lasciato alla sete del cuore di condurlo sempre oltre, di guidarlo senza mai accontentarsi, di lasciare a Dio la possibilità di spingerlo lungo i sentieri esigenti dell’amore vero che permette di vedere ogni cosa, dall’alto della croce, in un modo totalmente nuovo. Siamo stati creati per essere felici ed il peccato più grande è credere che Dio sia il nemico giurato della nostra gioia. Bisogna dissentire da coloro che reputano la fede cristiana un insieme di norme da osservare, una morale fredda da seguire pedissequamente, un insieme di regole che comportano sacrifici, rinunce, mortificazioni disumanizzanti, fine a se stessi e che impediscono di vivere le cose belle della vita. Costoro pensano che Cristo ci renda tristi, musoni, duri, inflessibili, intransigenti. Gesù non ci toglie nulla di quanto è autenticamente umano, ma ci dona tutto, anzi ci ridona quello che il nostro egoismo ci spinge a perdere, con l’appropriazione e la strumentalizzazione utilitaristica. Cristo, infatti, è venuto nel mondo per renderci felici, per soddisfare la sete del cuore e svegliarci dall’illusione, opera del demonio, che godere dei beni della terra sia l’unica fonte di felicità. L’esperienza ci dice che non è così. Con Cristo tutto acquista un significato nuovo, perché diviene cifra dell’infinito e rimanda ad un oltre di cui le cose create sono immagine e richiamo. I santi, nelle diverse vocazioni vissute con evangelica sapienza, hanno saputo vivere con Cristo ogni esperienza umana e così anche le gioie naturali divengono ancor più belle. I piaceri di questo mondo disgustano il cuore, ma, vissuti in Dio e con la sua grazia, perdono il senso di assoluto e divengono un dono di Dio, un’esperienza di amore che si rinnova. Senza Dio il creato è opaco, con in Lui tutto ritrova un ordine e l’uomo può sperare nella gioia che non passa. Se il peccato è cercare di essere felici senza Dio, Gesù viene a ritessere la relazione con il Padre, superando la smania di accontentarci di quello che abbiamo e spingendoci a rischiare con Lui e con noi stessi. Accontentarsi significa condannarsi all’infelicità, perché siamo fatti per l’infinito e per ridare colore all’intero creato, con la potenza dell’amore di Cristo. Non esistono gioie terrene e gioie del cielo, in antagonismo e lotta tra loro, quanto invece gradi di gioia a seconda della capacità di soddisfare i desideri profondi dell’anima. Esiste Dio che ci ha creati per Lui e che ha arricchito il mondo del bene e del bello da scoprire, custodire, godere, donare agli altri. Creati ad immagine di un Dio bellezza e santità, beatitudine e gioia, realizziamo noi stessi se riflettiamo nel mondo l’essenza di Dio che è amore e, perché amore, al tempo stesso, bellezza e santità, beatitudine e gioia.

Ma di quale beatitudine Gesù parla?
Con il suo insegnamento Cristo non solo ci dice che è possibile essere felici, superando la deriva di assolutizzare questo mondo, per considerarlo cifra di un progetto più grande. Egli ci rivela che la gioia è alla nostra portata, anzi ciascuno ha la capacità di realizzarla, accogliendo il dono del suo Spirito. Ma diventare beati comporta un cammino di disillusione – il demonio, maestro nel confondere ogni cosa, ci illude sempre, facendoci vedere luce dove ci sono tenebre e tenebre dove splende la luce vera – per capire che la vera gioia non sta nel togliere Dio dalla nostra vita, come il serpente fece credere ad Eva, perché diventare dio di se stessi, arrogandosi l’arbitrio di decidere del bene e del male, non è libertà ma pura falsità per l’uomo. Dio è totalmente libero ma è sbagliato credere che, eliminandolo dal proprio orizzonte, la sua libertà assoluta passi a noi e possiamo decidere di ogni cosa. Il cammino della beatitudine comporta la liberazione dalle false idee di libertà e di autonomia che sono la radice del relativismo imperante – tutto dipende da me, tutto è relativo, nulla è assoluto, io sono la misura del bene e del male e faccio ciò che mi piace e voglio – in caso contrario, la parola di Gesù si aggiunge e mescola a ciò che noi crediamo umanamente, senza rinnovarci in profondità. Per questo l’annuncio di Gesù“Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (4,17) è la chiave per capire la sua missione e le esigenze del cammino di sequela per ciascun discepolo. Tutto il Vangelo mostra come la vita cristiana sia sotto il segno del rinnovamento del cuore che nasce dall’incontro con il regno di Dio, con la signoria di Gesù Cristo, che in noi mette radici se, da parte nostra, c’è incondizionata disponibilità. Il discepolo di Cristo è chiamato “a spogliarsi dell’uomo vecchio, con le sue passioni ingannatrici e a rivestire l’uomo nuovo”, ovvero a fare propria la vita di Gesù Cristo interamente: pensieri, sentimenti, parole, opere. In questo travaso che lo Spirito opera, l’uomo ritrova sé stesso, come immagine e somiglianza di Dio e si affranca dalla falsa sua identità che da Adamo ed Eva è creduta, in maniera illusoria, come la sua vera natura. Il cristianesimo non ci aliena da noi stessi, quanto, invece, ci fa scoprire chi siamo veramente, svelandoci la nostra umanità, aiutandoci a realizzare la nostra vera identità e ad accoglierla, senza averne paura. Comprendiamo così che nel Discorso della montagna Gesù continua a chiamarci a conversione, chiedendoci di cambiare i nostri criteri di giudizio per accogliere i parametri del suo regno. Come si vive da cittadini di uno stato facendone propri i principi e le leggi, così si partecipa al regno di Cristo accogliendo i suoi comandamenti. Tra l’uno e l’altro però la differenza è abissale, perché, come mostrerà Cristo, ammonendo i suoi discepoli, preoccupati di essere considerati i più grandi (cf. Lc 9,46-48), il suo regno si basa sulla piccolezza ed il servizio, perché il primo è l’ultimo ed il più grande è colui che occupa l’infimo posto. Senza ricordare il monito alla conversione tutto ciò che leggiamo nel Vangelo ci appare contrario ad ogni nostra logica, quanto, invece, rappresenta la vera nostra logica che ci umanizza e ci fa essere veramente creature nuove, donne e uomini veri, secondo il piano ed il progetto di Dio. Gesù ci insegna nelle beatitudini che proprio in quello che viviamo, nelle situazioni che rifiutiamo, nella avversità che rifuggiamo ci sono i semi del suo regno, il lievito di quella trasformazione totale che investe la farina della nostra vita se noi lasciamo che Cristo ci unisca a Lui. E così la povertà, il pianto, la mitezza, la fame e la sete di giustizia, la purezza di cuore, la promozione della pace, la persecuzione diventano le situazioni tipo che rivelano il valore positivo ed autenticamente umanizzante del regno di Cristo, perché permettono all’uomo di accogliere Dio nella concretezza della vita. Gesù non dice che la povertà e la fame, come ogni umana sofferenza, non vadano combattute perché sono un bene, ma che nel suo regno hanno cittadinanza coloro che soffrono ogni tipo di difficoltà per sperimentare, nella forza della fraternità, la possibilità di essere amati e aiutati, sostenuti e accompagnati. Dio pone tra i poveri e i deboli la sua dimora e li considera i suoi fratelli prediletti. Il regno di Dio è già in mezzo a noi. Cristo rivela la presenza del suo regno, la potenza del sale e del lievito, nella terra e nella farina della nostra storia. Proprio dove il mondo sperimenta lo scandalo ed il rifiuto, dove sembra che Dio non ci sia e che non si preoccupi di coloro che sono nel dolore, proprio lì Cristo annuncia la presenza del Padre, di là inizia la trasformazione del suo regno, ai poveri è rivolta la sua parola, a quanti brancolano in ogni tipo di tenebra è annunciata la speranza della luce. È questa la dinamica del regno di Dio, questa è la vita che Gesù vive e propone: un’apparente scandalo che mostra una straordinaria potenza di umanizzazione e di trasformazione. La logica paradossale che il Verbo eterno fa propria con l’incarnazione e che vive, durante l’arco della sua esistenza terrena, dalla mangiatoia alla croce, non è irrazionale. Il fatto che la nostra mente la rifiuti ed istintivamente ne avverta l’illogicità non vuol dire che sia contro la ragione ma che manifesti una logica superiore ed una razionalità che, per essere da noi compresa, ha bisogno di un salto di fede. È questo il paradosso dell’esperienza cristiana, del cambiamento richiesto da Cristo ad ogni discepolo. Gesù combatte il male assumendolo in prima persona, mai dall’esterno, e chiede che si debelli la povertà e ogni situazione di sofferenza, mettendosi dalla parte dei poveri, perché il regno inizia di là, lì abita Dio, lì rivela la grazia della sua presenza e la forza della misericordia e della compassione che si fa carico del dolore e della sofferenza. Il credente non si abbandona all’ingiustizia ma la combatte, facendosi carico dell’oppresso, non condividendo a parole le sue battaglie. Che senso ha lottare contro la povertà e la fame, la violenza e l’odio, se poi non ci si fa carico di coloro che soffrono queste situazioni di estremo dolore? Con le beatitudini Gesù ci insegna che Dio non abiterà una società perfetta, che noi costruiremo – è pura utopia credere di edificarla – ma che Lui è stato mandato a sporcarsi le mani, a donarci quell’amore che trasforma dall’interno e che ci insegna a non aver paura di condividere e stare accanto a chi è nel bisogno, sperando, pregando, offrendo e lavorando, perché si realizzi il sogno di Dio, che tutti gli uomini vivano da fratelli.

Nel mistero della vita di Cristo tutto diventa chiaro
Le beatitudini portano il credente ad essere in tutto conforme a Gesù Cristo. La logica che ha scandito la sua vita, i criteri che ne hanno determinato le scelte, i sentimenti che animavano il suo cuore, nelle situazioni più diverse, i silenzi e le parole, gli sguardi e le umiliazioni vengono dallo Spirito Santo partecipate a chi ha risposto alla sua chiamata e, seguendolo, si lascia attrarre dalla pienezza della Legge che Egli vive e dona, con la vita e la parola. La sequela è un cammino di assimilazione a Cristo che nasce dalla chiamata alla conversione e si corrobora quotidianamente, attraverso i colpi inflitti dallo Spirito al legno verde del nostro io che muore lentamente, quando la volontà umana è vinta dall’amore di Cristo che interiormente sperimenta e totalmente lo invade. Tutto può cambiare se comprendiamo che Dio non è lontano dalla nostra vita e che ogni situazione può essere la tenda che Dio abita per stare con noi.