Dio non ci toglie nulla, ma ci dona tutto.

Commento alla Prima Lettura di fra Vincenzo Ippolito ofm
II Domenica di Quaresima (Anno A) – 5 marzo 2023

Vocazione di Abramo, padre del popolo di Dio.

Dal libro della Genesi (12,1-4a)
1 Il Signore disse ad Abram:
“Vattene dalla tua terra,
dalla tua parentela
e dalla casa di tuo padre,
verso la terra che io ti indicherò.
2Farò di te una grande nazione
e ti benedirò,
renderò grande il tuo nome
e possa tu essere una benedizione.
3Benedirò coloro che ti benediranno
e coloro che ti malediranno maledirò,
e in te si diranno benedette
tutte le famiglie della terra”.
4Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore,

La liturgia di questa seconda tappa verso la Pasqua – dal deserto alla libertà, dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce sono alcuni dei contrasti che questo tempo presenta – ci offre, nella Prima Lettura, la chiamata di Abramo ad essere padre di una moltitudine di popoli (cf. Gen 12,1-4a), tema in parte ripreso da Paolo, nella Seconda Lettura (cf. 2 Tm 1, 8b-10). Rivolgendosi a Timoteo, suo discepolo e collaboratore, gli svela il mistero della vocazione ricevuta, esortandolo a tenere fisso lo sguardo sul Signore Gesù. Il brano del Vangelo (cf. Mt 17,1-19), con il racconto della trasfigurazione, orienta lo sguardo dei discepoli verso la croce, che svela il mistero dell’amore del Padre nella consegna obbediente del Figlio.

Il tema della chiamata lega i testi biblici che la Chiesa oggi ci offre: Dio chiama Abramo a realizzare il suo progetto, uscendo dalla sua terra e sradicandosi dalla sua famiglia, come Timoteo, al quale scrive Paolo, che deve accogliere, attraverso Cristo Gesù, la missione di annunciare il Vangelo, anche nella sofferenza. Gesù, nel mistero della sua trasfigurazione, mostra la sua obbedienza al Padre, perché, secondo la legge e i profeti, si compia in Lui il progetto della salvezza degli uomini. Ogni chiamata comporta un’uscita da sé, un cammino di esodo, riconoscendo le proprie schiavitù e mettendosi in gioco per un progetto più grande. È questa la grazia da chiedere, con umiltà, oggi al Signore.

Sentire la voce di Dio
La scorsa domenica, con il brano della creazione dell’uomo (cf. Gen 2,7-9) unito al racconto del peccato di Adamo ed Eva (cf. Gen 3,1-7), la liturgia ha attinto dalla storia universale, narrata dalla prima parte del libro di Genesi (cf. Gen 1-11). Il brano che ci viene offerto oggi è invece l’inizio della seconda parte, solitamente indicata come Storia dei patriarchi  (cf. Gen 12-50). Il primo di questi è Abramo, di cui il testo sacro ci trasmette la chiamata di Dio, senza nessuna introduzione. Sarà la narrazione successiva a darci indicazioni più precise circa la sua vita. L’incipit richiama la storia degli altri patriarchi, a cui il Signore rivolge la sua voce – si pensi, ad esempio, a Noè in Gen 7,1; 8,15; 9,8) – ed il racconto della creazione, il primo trasmesso dall’autore ispirato, nel quale Dio parla e chiama all’esistenza ogni cosa.

Ogni vocazione è una creazione. Quando Dio si rivolge all’uomo, lo chiama ad esistere nel suo progetto, a prendere parte al suo disegno di salvezza. Lo chiama ovvero lo trae dalle sue occupazioni, dal suo nulla – ogni cosa senza Dio non è nulla! – e, come la polvere che prese dal suolo e plasmò in Adamo, così la sua parola ci fa esistere, il suo soffio ci ricrea. La parola di Dio è il suo soffio, il suo alito, che imprime in chi ascolta la sua volontà onnipotente, una parola la sua che ti dona la vita, che effonde la gioia, che ti presenta una strada da percorrere, una via da battere, mai da solo, ma accompagnato dalla sua mano, che non lascia nessuno da solo. La vocazione, ogni vocazione è il momento nel quale il Signore “comanda e tutto è fatto, parla e tutto esiste”. Senza la sua voce, non c’è vita ed è Lui, con la sua parola, che diventa la vita della tua stessa vita. Abramo non conosce il Signore. La sua gente adora altre divinità, nella terra di Canaan. Per settantacinque anni non ha mai incontrato Dio, il Signore non gli ha rivelato la sua voce, partecipandogli la sua volontà. La vocazione rappresenta uno spartiacque tra la vita di prima e quella di dopo, un dopo totalmente trasformato dalla presenza del Signore, che determina le sue scelte, motiva il suo impegno, pari a quello di un giovane, per il coraggio e la sveltezza dei movimenti e delle situazioni da affrontare. La chiamata lo cambia, la voce di Dio lo converte, la presenza del Signore gli rivoluzione l’esistenza. Quel rivolgersi del Signore Dio verso di lui lo stradica da se stesso, dalle sue paure, dall’angoscia di non avere una discendenza e lo pianta, prima ancora che in una terra nuova, nella fedeltà del Signore che diventa il suo Dio e che stringe con lui un’alleanza di pace. La voce del Signore è il segno della sua presenza, del suo intervento potente, che tutto polarizza, attrae, chiama, stravolge, trasforma. Dio si rivolge ad Abramo con una proposta di vita, perché conosce bene ciò che sta per comunicare, mentre l’uomo comprenderà il suo dire con la gradualità della sua natura, condotto dalla rivelazione progressiva che Dio permette, nel pieno rispetto del cammino di ognuno. Sembra che ci sia tutto silenzio intorno, non si dice il luogo, solo la richiesta perentoria, inequivocabile. Dio ed Abramo sono unito da una parola che parte dall’uno e raggiunge l’altro, una voce che, rivelandosi, svela il volto di chi la proferisce e mostra la ragione del suo comunicarsi. La parola del Signore raggiunge ed avvolge l’uomo, pur rimanendo alla porta del suo essere, come sorgente di vita e promessa di gioia. La parola, il dire di Dio ci unisce a Lui, è mediazione della sua grazia, prolungamento della sua potenza di vita. Ciò che la parola è nella vita di Abramo lo sarà, nella nostra carne, Cristo, parola che interpella, mano che ti afferra, occhio che ti scruta, senza giudicarti, misericordia che ti perdona, grazia che ti salva dal male, parola che ti ricrea, senza sfiorati, vita che si dona a te come sorgente traboccante di Spirito Santo.

“Vattene dalla tua terra – dice Dio ad Abramo – dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò”. Si tratta di una parola forte, che non fa sconti, che lo stradica da sé e da come lui si pensa da una vita, lo strappa da un contesto fatto di relazioni familiari e legami affettivi. Per noi che leggiamo questo brano alla luce delle chiamate dei discepoli, comprendiamo bene che Dio si comporta sempre così, chiede tutto, perché dona tutto. La radicalità, vissuta e richiesta da Cristo, in parte è già presente nella voce che investe Abramo. Sembra che ci sia una progressiva discesa in profondità, nella richiesta di Dio, dalla terra si giunge alla famiglia, passando per la parentela, cerchi concentrici, che si richiudono, dal grande al piccolo, come la falce di chi miete, che parte da lontano, con il suo ampio braccio, per chiudersi, raccogliendo le spighe cariche di grano, che si piegano, sotto il peso del grano che contengono. Così la chiamata di Dio, raccoglie tutto di quello che sei, nel suo abbraccio c’è tutta la tua vita, quello che sei stato e che sarai, la tua storia, i tuoi affetti, le persone che hanno animato gli eventi della tua esistenza, i volti che hanno dato i colori della gioia e, forse, le tinte scure dei momenti poco felici. “Tutto tu guardi e prendi nella tua mano”, proprio così fa Dio con Abramo. Non ci sono parti che si perdono, persone che scompaiono, situazioni che sfuggono. La parola di Dio tocca tutto di ciò che siamo, chiedendoci di assecondare la sua presa, che ci strappa da noi stessi e da quello che fino ad ora siamo stati, lasciando che cadiamo, proprio come le spighe, nella presa forte e dolce di Lui, che è il mietitore buono, pronto a raccogliere i nostri chicchi, per riseminarli, dove a Lui piace. Ogni vocazione comporta uno strappo, per Adamo – “l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne” (Gen 2,25) – come per chi segue il Signore, con la vocazione apostolica (cf. Mc 1,18. 20). Bisogna procedere in avanti, senza voltarsi indietro, come la moglie di Lot (cf. Gen 19,26), sapendo che quanto Dio donerà, secondo la sua promessa, è più di ciò che lasciamo. I tagli sono inevitabili nel cammino di crescita, sempre. Un neonato deve uscire dal grembo della mamma e, una volta cresciuto, scendere dalle sue braccia per imparare a camminare. Queste semplici regole, che hanno scandito la vita di ciascuno, si ripresentano in ogni ambito, per ricordarci che per crescere bisogna fare dei passi in avanti. Non si tratta però di togliere dalla nostra vita le persone a cui vogliamo bene, ma di vivere con maturità i rapporti, sapendo che ci sono momenti nei quali è richiesto che ciascuno spicchi il volo per essere se stesso nella vita. Dio non sta chiedendo ad Abramo che consideri morta la sua famiglia, ma che lo ami di più e questo sarà chiaro nella parola di Gesù, rivolte, con fermezza, a chi lo segue: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me” (Mt 10,37). Il Signore è un Dio geloso e non vuole dividerci con nessuno, non perché voglia appropriarsi di noi, ma perché sa bene ciò che è bene per noi. Potente e possente la parola di Dio ci strappa da noi stessi, da quello che siamo ed abbiamo, per iniziare con noi un cammino di autentica libertà. È un itinerario lento quello della liberazione dagli affetti morbosi e la maturità affettiva è un traguardo che riescono a tagliare solo i più coraggiosi, che non si fermano alle cadute, chiedendo continuamente la grazia del Signore perché il cuore diventi puro e libero, come quello di Gesù. Il cuore di Abramo deve accogliere una moltitudine di figli e Dio gli chiede di lasciare che lo spazio della sua tenda interiore si dilati, perché tutti vi si sentano a casa.

Uscire da e andare verso
Il dialogo di Dio con Abramo è stringato, almeno stando a ciò che il testo biblico trasmette, e lascia facilmente intendere che la parola custodisce in sé una promessa, che solo il tempo rivelerà in tutta la sua ricchezza. Quello che il Signore indica è un cammino da iniziare, una strada da imboccare, in obbedienza, alla parola ricevuta, lasciandosi in tutto determinare da Dio, che gli ha rivolto la sua voce e rivelato il mistero della sua volontà. Come un giorno il popolo, uscito dalla terra d’Egitto, verrà guidato nel deserto, verso un paese dove scorre latte e miele, così ora, nella vicenda di Abramo, si nota la medesima dinamica, scandita da tre tappe.

In primo luogo c’è la terra dove Abramo dimora e vive, con la sua famiglia. La terra di Canaan rappresenta, in un certo senso, il paese della schiavitù, della gioia non autentica e piena. Abramo ha tutto, in termini di affetti e di beni, ma non ha tutto quanto desidera. Nulla potrà mai sostituire un figlio, lo sguardo rivolto al futuro, la speranza di una numerosa discendenza. Ha tutta, ma gli manca tutto. La vecchiaia che incalza gli ricorda ciò che non è riuscito ad avere e, insieme a Sarai, sua moglie, si ripiega sul nipote Lot – parte del nuovo cammino verrà condiviso con lui, ma sarà destinato a rompersi questo legame, perché è il segno di un passato che tarda a fare spazio alla novità di Dio, nella sua vita – ma senza che la sterilità possa essere superata. Per questo Dio gli chiede di partire, senza guardare ciò che lascia, ma con lo sguardo puntato a quello che riceve come promessa.

La seconda tappe è rappresentata proprio dal cammino da intraprendere, fatto di coraggio ed un pizzico di inconsapevolezza – anche questa serve nella vita – di avventura e di sfida, come di speranza e di fiducia, una sorta di scommessa con se stessi e con quel Dio, che, misteriosamente, gli ha parlato. Vivere lo strappo è possibile solo se c’è nel cuore la speranza di un mondo nuovo, diverso, ricco di quella gioia, sempre desiderata e mai compiutamente raggiunta. Difatti, uscire dalla terra di nascita, andare via dalla propria famiglia, lasciare la casa del padre è possibili solo avendo una meta da raggiungere, un traguardo verso il quale camminare. Si esce da e si cammina verso: senza questa prospettiva non esista futuro, i piedi non camminano, la mente non sogna, gli occhi non si accendono, il cuore non si anima e le forze non conoscono la giovinezza, che sperimentano anche gli anziani, quando ancora hanno il desiderio di mettersi seriamente in discussione.

La terza tappa è data dalla meta, non conosciuta, ma verso cui ci si dirige, pieni di speranza, con il cuore traboccante di lieta attesa, nel desiderio di superare il passato, gettandosi alle spalle tutta l’amarezza dell’esperienza vissuta. Il futuro solo Dio lo conosce, ma dona la grazia di sperare nella sua parola e di credere alla sua promessa. Quello che Dio ci pone come traguardo supera sempre ogni nostro desiderio del cuore e pensiero della mente.

Il cammino richiesto dal Signore deve essere compiuto da Abramo “verso la terra che io ti indicherò” (v. 1). Si tratta del passaggio dalla terra dei miei padri alla terra indicata da Dio, perché è la terra di Dio. Dal ciò che è mio a quello che è di Dio, dal mio io a Dio: è questo il cammino che ci rende autenticamente noi stessi, pienamente liberi da ogni forma di condizionamento, interno ed esterno. Abramo deve imparare a fidarsi di Dio, a mettere la vita nelle sua mani, abdicando al diritto di decidere di sé e della sua famiglia, di organizzarsi secondo il suo gusto, di porre la tenda della sua dimora, seguendo i suoi calcoli e capricci. Quest’uomo deve vivere anzitempo il chiodo che reggerà le Dieci parola: “Io sono il Signore Dio tuo” (Es 20,1) e se Colui che gli ha parlato è Dio, se è veramente del Signore la parola che gli è stata rivolta, allora c’è una sola strada praticabile, quella dell’obbedienza, diametralmente opposto a quella scelta, nel giardino di Eden, dai nostri progenitori. Così facendo, l’uomo lascia terreno a Dio, riconosciuto come proprio Dio, gli riconsegna la vita, lo accoglie come Signore, lo ama come Creatore, gli restituisce l’anima, lo fa sedere di nuovo sul trono ingiustamente espropriato da Eva ed Adamo, permettendo che la sua voce ritorni a regnare sovrana dove quella del tentatore aveva imposto la sua forza, usurpando Dio. Non c’è autentico cammino di fede, se non si parte dal riconsegnarsi totalmente a Dio, se non si lascia la propria via per la via di Dio, partendo, senza sapere dove andare, perché è il Signore a chiedere quel passo. Nella parola rivolta ad Abramo, Dio poi non specifica nulla, dice che indicherà quella terra, senza aggiungere particolari, anche se il cuore umano è sempre desideroso di sapere altro. Difatti, il Signore non spiega tutto di quanto Abramo sarà chiamato a fare, perché l’uomo è incapace di portare il passo di Dio. Come al popolo verrà donata la razione di manna per ogni singolo giorno, così il Signore offre ciò che possiamo capire e non di più, riservandosi di fornire in seguito quanto ci è necessario, in ogni singola tappa della nostra vita. Non è importante comprendere i singoli passaggi che verranno compiuti, ma l’intero disegno, per sommi capi, perché l’uomo abbia un’idea di quanto Dio gli chiede e metta la sua vita nelle mani sue, indipendentemente da quanto gli verrà in seguito domandato.

Camminare verso la meta che la promessa di Dio ci ha donato è questo il senso del nostro cammino fatto in obbedienza a Dio, sorretti dalla sua mano, che non ci lascia mai vagare nel buoi. Avere fisso lo sguardo sulla meta significa fidarsi di Dio, sognare con Lui, non permettere che i fallimenti ci fiacchino, le cadute ci intristiscano, le voci contrarie da quelle di Dio limitino il corso della grazia dentro di noi. Abbiamo bisogno di orizzonti sconfinati, come quelli che solo Dio riesce ad aprire, di visioni ampie, di speranza belle, di cime alte. La vita cristiana è proposta ad amine grandi, cuori ardenti, mani generose, menti acute, sguardi attenti o, per meglio dire, la voce del Signore, accolta con fede ed umiltà, rende grandi le anime, ardenti i cuori, acute le menti, attenti gli sguardi, docili all’ascolto gli orecchi, pronti alla fattiva obbedienza la vita. Non possiamo né dobbiamo abbassare l’asticella delle attese di Dio su di noi, sapendo che Egli gradualmente ci condurrà a quella misura alta della vita, misurata sulle nostre possibilità, fecondate dalla grazia dello Spirito.

Se pensiamo alla nostra vita, al rapporto con Dio, alle paure che ci portiamo nel cuore, dobbiamo riflettere che non solo è difficile uscire da una situazione comoda che non ci fanno crescere, da relazioni che, come delle tenaglie, non ci permettono di essere liberi e di pensare al nostro futuro, è altrettanto non semplice camminare e tenere fisso lo sguardo verso la meta, senza lasciarsi deviare dalle voci ricorrenti, che annebbiano la vita ed impediscono al cuore di sperare. Non solo Abramo dovrà passare per le forche caudine di numerose difficoltà, ma sarà l’antesignano di ogni pellegrino della fede, chiamato a sperare contro ogni speranza, nella potenza della Parola di Dio, che realizza quanto promette.

Sognare con Dio
La voce del Signore che Abramo sente sveglia in lui il mondo dei desideri sopiti e delle speranze deluse. Gli sarà sembrato, sulle prime, di dormire, vista la promessa a lui rivolta: “Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione” (v. 2). Se Dio chiede ad Abramo di accoglierlo come Signore è perché lui per primo si prende a cuore la sua vita e decide di seguire i passi del suo cammino verso la gioia. Il testo non dice il motivo del suo rivelarsi, la ragione dello stringere con quello che sarà il grande patriarca di Israele la sua alleanza di pace. Il motivo è risaputo ed è uno solo: l’amore che Dio porta per la sua creatura e che lo conduce a mostrare il suo volto di luce, di cui ogni uomo ha sete. Solo l’amore è la ragione che muove Dio ad essere Signore della nostra vita, ordinatore della storia degli uomini. Avrebbe potuto disinteressarsi di noi, come lo immaginava Aristotele, primo motore immobile che non sente le grida di chi muore in mare e non vede la sopraffazione dei potenti sui deboli, ignaro, perché volutamente tale, delle ingiustizie e delle intrighi di morte, degli interessi che armano le mani degli orgogliosi e delle trincee di violenza, scavate dalla superbia di prevalere sul fratello ad ogni costo. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, “il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore” non è il riflesso del nostro disordinato desiderio di possesso, ma l’amore che rende bella la vita, il sorriso che si imprime nella creazione, la serenità del vivere che riempie il cuore di pace. Dio ama l’uomo, non no con quel sentimento sdolcinato di chi ora te lo dice e tra breve è pronto a voltarti le spalle, neppure con quel falso trasporto di chi è pronto a tutto, nella gioia e poi, nel dolore si dilegua. L’amore che Dio nutre per Abramo e per noi tutti è quel legame eterno che lo porta a stare nella nostra vita, indipendentemente dal nostro accoglierlo, con la ferma determinazione di costruire la nostra gioia, anche quando facciamo crollare quanto Egli edifica per la nostra pace. Così Dio ci ama, contro ciò che noi pensiamo di Lui, combattendo i pregiudizi che ci spingono a prendercela con il suo dirsi Provvidenza, quando le cose non vano lisce come l’olio, dimenticando che l’olio, quello genuino, con il freddo si solidifica ed è questo il segno che è il frutto vero dell’olivo. Dio ti ama, da sempre e ti amerà per sempre. Ti starà accanto, anche senza farsi vedere, veglierà sulle tue notti, custodendo i tuoi sogni, anche quando nel cuore stai pensando, come Giuseppe, di prendere una strada diversa da quella da Lui tracciata per te. Se poi vuoi veder come Dio ti ama, guarda Gesù, il Lui l’amore del Padre ha posto la sua dimora ed è divenuto sorgente di misericordia e perdono per tutti noi. Come Dio Padre ama Gesù, così ama noi e la nostra risposta deve seguire quella del Signore, nel dirgli sempre il nostro Sì, non tanto per contentare Lui, quanto per essere noi felici.

Abramo si scopre amato da Dio, perché la ragione del suo raggiungerlo e rivelare il suo volto è solo l’amore che lo spinge a riempire la sua vita della potenza della trasformazione, che è amore per essenza. Tutto quello che accadrà nella vita da ora in avanti sarà solo segno dell’amore di Dio e sarà Lui a benedire, a rendere grande a fare di lui una nazione. Tutto sarà segno in Abramo di questo Dio che ama strafare, non perché, come noi, vuole che si riconosca la sua grandezza, ma unicamente perché Egli è buono e grande nell’amore. Tutto dipende da Dio ed Abramo, accogliendo al sua proposta, entra nell’eredità che gli ha preparato e può godere dei beni per lui serbati. Da ora in avanti, tutto dipenderà da Dio, che  “Davanti a me tu prepari una mensa” (Sal 21,5), ma che in Gesù prometterà il centuplo e al vita eterna, a chi lo segue, rinnegando se stesso: “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19,27). Dio si dona totalmente a chi lo accoglie e, per chi ricerca il suo regno e la sua giustizia, tutto è dato in aggiunta.

Una risposta mossa dalla sola fede
Abramo obbedisce, fidandosi di Dio: è questa la strada che attende anche noi. Non c’è fiducia senza obbedienza, non c’è obbedienza senza amore vero per Dio che incontra i nostri passi e misteriosamente, per la forza del suo amore, ci conduce verso la libertà.